di: Giovanna Parravicini
«Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: “Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito”. E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora; e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima. Così avverrà anche a questa generazione malvagia» (Mt 12,43-45).
Un “luogo santo” – l’anima dell’uomo come anche un santuario – non resta mai “vuoto”, può assurgere a vette di santità come anche ricadere in abissi di male, leggiamo nel Vangelo. Così è stato nei secoli per la località in cui oggi si progetta di costruire il “Vaticano ortodosso”. Che volto cristiano ci si accinge a delineare, che pagina di spiritualità ci si appresta a scrivere in questo luogo storico?
Basta un brevissimo excursus storico per capire che la “Borgata di San Sergio” – Sergiev Posad – è stata nei secoli un nome conosciuto e venerato in tutta la Russia, il maggior centro di afflusso di pellegrini che giungevano da ogni angolo del paese per pregare sulla tomba di san Sergio all’interno della grande Lavra, venerarne le spoglie e implorare la sua intercessione.
Il monastero della Trinità di San Sergio, fondato nel XIV secolo come eremo e poi cenobio tra le foreste russe che costituivano in Russia l’equivalente dei deserti dell’Egitto e della Cappadocia, ebbe una sorte gloriosa.
La santità del suo fondatore, che ebbe l’intuizione di dedicarlo al mistero trinitario quale modello della persona e della comunità umana («Contemplando la santissima Trinità vinciamo l’odiosa divisione del mondo», era il motto che consegnò alla comunità monastica e all’intera nazione), lasciò un’orma tanto profonda sulla Russia del tempo da generare una fioritura monastica che si diffuse in tutto il paese evangelizzandolo e civilizzandolo insieme, proprio com’era avvenuto secoli prima in Occidente con san Benedetto.
La rivoluzione portò ben presto un radicale cambiamento: nonostante la disperata battaglia di Pavel Florenskij e di molti altri, che si sforzarono di dimostrare se non altro il valore culturale, storico del luogo, neppure il monastero della Trinità di San Sergio sfuggì alla «campagna contro le mummie» (profanazione delle reliquie dei santi), e poi alla sua chiusura. E, per decreto del Comitato Centrale del PCUS, il 9 maggio 1929 l’insediamento intorno al monastero da Sergiev Posad si trasformò in Zagorsk, dal nome del «rivoluzionario Zagorsk Nikolaj Fedorovič».
Il monastero sarebbe stato riaperto nel dopoguerra, come uno dei segni di riconoscenza di Stalin nei confronti della Chiesa ortodossa, che aveva sostenuto il paese durante gli eventi bellici.
Oggi Sergiev Posad, che ha riacquistato l’antico nome nel 1991, è un insediamento di circa 100.000 abitanti, la cui vita economica e culturale, oltre che, naturalmente, spirituale è strettamente intrecciata con la vita del principale monastero ortodosso della Russia. Un centro storico allineato intorno alla strada principale che scorre ai piedi della collina Makovec, su cui svetta l’imponente complesso monastico, e zone dormitorio di stampo sovietico che si estendono per i due terzi dell’area comunale. Una delle tante cittadine di provincia, in cui i danni del tempo si assommano alle pecche dell’edilizia sovietica, conferendole un aspetto piuttosto fatiscente (sebbene sempre più frequentemente si vedano restauri e ricostruzioni “all’europea” dei nuovi benestanti o ricchi), ma in cui si rintracciano anche molti accenti coloriti e caratteristici del periodo prerivoluzionario della Russia ottocentesca provinciale.
Tutto questo potrebbe ben presto scomparire, spazzato via da un progetto di sviluppo della cittadina di cui si è venuti a conoscenza nei particolari e nei costi alla fine di giugno, e che ha realmente proporzioni faraoniche: vi si prevede un radicale rinnovamento delle infrastrutture dei trasporti (la cittadina si trova a circa 70 km da Mosca), la costruzione di due poli – uno amministrativo e uno religioso – comprendente la biblioteca patriarcale, il tribunale ecclesiastico, la sede del Santo Sinodo, la residenza ufficiale del patriarca, rappresentanze delle Chiese ortodosse autocefale e un centro di comunicazioni mediatiche, oltre a centri per congressi, complessi museali e strutture di accoglienza per turisti e pellegrini. Il tutto per un budget complessivo di circa 120-140 miliardi di rubli (2 miliardi di euro), che saranno pagati al 90% dal bilancio federale, con un piccolo contributo della Regione di Mosca (per fare un paragone, nel corso degli ultimi due anni per l’intero programma di manutenzione di tutte le città russe insieme sono stati spesi complessivamente 50 miliardi di rubli).
Il centro storico intorno al monastero (vale a dire 400 ettari, circa un terzo della superficie occupata attualmente dal comune), dovrebbe essere smantellato e ricostruito secondo il progetto di questa sorta di “città ideale”.
Lo scopo dell’impresa sarebbe quello di fare di Sergiev Posad la «capitale dell’ortodossia», i cui modelli ispiratori – si è detto da più parti – sarebbero il Vaticano, Gerusalemme e La Mecca. Della cosa erano circolate notizie fin dal dicembre 2017, e qualche mese dopo si era parlato di una richiesta avanzata dal Patriarcato di Mosca a Putin.
Ad accendere le polemiche apparse nei giorni scorsi sui media sono state sia le proporzioni del progetto e il budget impegnato per la sua realizzazione, sia – ancora una volta, dopo il caso di Ekaterinburg’ – la totale mancanza di glasnost’nella sua stesura, nei confronti della popolazione locale e dell’opinione pubblica in generale.
Ma ciò che lascia maggiormente interdetti è la motivazione data da uno degli uomini alla guida del progetto, padre Leonid Kalinin, che ha così spiegato il senso del nuovo “Vaticano ortodosso”: «Bisogna gradualmente liberare il monastero, convogliando i turisti in musei, cinema 3D ecc., in modo da farli stazionare il meno possibile nel luogo sacro, dove disturbano i monaci, che hanno vita difficile a causa del continuo frastuono».
Visitando più volte negli anni il monastero di San Sergio, mischiandomi ai pellegrini che sostano in fila per ore per poter baciare l’urna del santo, o anche semplicemente ai curiosi e ai turisti che contemplano gli splendidi edifici medioevali che lo compongono, ho sempre pensato che l’ardente appello di san Sergio alla comunione fraterna è quanto di più attuale vi sia, anche per l’uomo scettico e stanco di oggi.
Che senso ha programmare un’alternativa alla visita di questi luoghi sacri, alla venerazione della memoria e delle spoglie di san Sergio, all’interrogativo sul senso della vita che emana da tutto questo? Non è un precludersi una preziosa opportunità missionaria?
Certo, occorrerebbero monaci desiderosi di andare incontro alla gente come faceva san Sergio, che accoglieva gli uomini e, come san Francesco, ammansì perfino un orso… Ma perché ci sono dati questi luoghi santi, la memoria della santità e la sua presenza viva, se non per “spenderli” con tutti? Sono queste le domande a cui dovrà rispondere la nuova «capitale dell’ortodossia», più che della pompa dei marmi e delle pitture con cui verrà certamente costruita.