di Luigi Sandri
04 luglio 2017
Ad un anno dal Concilio le tensioni fra i vari patriarcati continuano ad accentuarsi. Molto per questioni politiche
A un anno dal “Santo e Grande Concilio” che si sperava “panortodosso” ma che tale non fu, le relazioni tra le Chiese continuano ad essere turbate: del tutto irrisolto rimane il loro intrico in Ucraina, paese ove sempre più spinoso è il rapporto tra la Chiesa che si ricollega al patriarcato di Mosca e le due “autocefale” che guardano a Costantinopoli; e permane lo stato di scisma tra il patriarcato di Antiochia e quello di Gerusalemme.
L’eredità del Concilio di Creta
E’ necessario, per capire la situazione attuale, riandare al Concilio di Creta, che si tenne nell’isola greca nel giugno 2016. L’idea di un Concilio “panortodosso”, già lanciata nel 1961, era stata istituzionalizzata e, lungo i decenni, attraverso conferenze pan-ortodosse, si era andato precisando l’elenco dei temi della futura Assemblea, e poi si erano affrontate le questioni concrete legate al suo svolgimento. Nel 2014 luogo del Concilio – il primo, del genere, dopo quasi mille anni – era stato fissato a Istanbul. Ma un evento di guerra mandò all’aria l’ipotesi. Infatti, il 24 novembre 2015 i turchi abbatterono un caccia russo sostenendo che volava abusivamente nel loro spazio aereo; una tesi sempre respinta dal Cremlino, secondo il quale l’aereo era nello spazio aereo siriano. Il presidente Vladimir Putin proibì allora viaggi di russi in Turchia. Così il patriarcato russo non sarebbe stato presente al Concilio: un’assenza clamorosa, visto che la Chiesa russa da sola ha il 60% dei duecento milioni di ortodossi sparsi nel mondo.
Perciò la “sinassi” (riunione) dei capi ortodossi, convocati nel gennaio 2016, a Chambesy, Ginevra, cambiò la sede del Concilio, decidendo per Creta, e ribadì anche alcuni criteri per il suo svolgimento: ognuna delle quattordici Chiese ortodosse autocefale avrebbe avuto un solo voto (dunque, i rappresentanti di ogni Chiesa avrebbero dovuto approdare ad un consenso); tutte le decisioni si sarebbero prese per consenso unanime; al Concilio ogni Chiesa avrebbe potuto inviare, oltre al suo primate, ventiquattro delegati.
Tuttavia, nell’imminenza ormai dell’Assemblea, quattro patriarcati – russo, bulgaro, georgiano e antiocheno – annunciarono che non avrebbero partecipato. E così il “Santo e Grande Concilio”, dal patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I – il primus inter pares tra i gerarchi ortodossi – sempre proclamato “panortodosso”, tale non era più. Sullo sfondo di tale assenza sta(va), in particolare, irrisolti nodi tra i patriarcati di Mosca e di Costantinopoli, su temi come quelli dell’autocefalia (chi la proclama?) e della giurisdizione sulle Chiese ortodosse al di fuori dei loro confini canonici (quelli storici). L’assenza di quattro patriarcati a Creta ha ovviamente indebolito l’appello alla concordia ortodossa e alla pace nel mondo, lanciato dal Concilio.
L’inestricabile nodo ucraino
Stante l’Urss, l’Ucraina – dal punto di vista religioso ortodosso – era un esarcato legato al patriarcato di Mosca. Con il collasso dell’Unione sovietica, l’Ortodossia ucraina si spaccò in tre: Chiesa ortodossa (legata a Mosca), la più numerosa; Chiesa autocefala e patriarcato di Kiev, ambedue non riconosciuti come tali dagli altri patriarcati ortodossi. I due gruppi, poi, brigarono con Costantinopoli perché fosse riconosciuta una sola Chiesa ortodossa ucraina, autocefala: ipotesi frontalmente respinta dalla Chiesa russa, che trae dall’Ucraina una parte importante del suo clero; e comunque mai accolta – formalmente – da Bartolomeo I.
In questi ultimissimi anni, il confronto militare tra Ucraina e russofoni della part est del paese, e l’annessione della Crimea alla Russia, hanno aggravato le tensioni intra-ortodosse, tra i filo-Kiev e i filo-Mosca. D’altre parte, distinguere – in Ucraina – fede, religione, nazione è davvero problematico.
Le tensioni intra-ortodosse si mescolano a quelle del patriarcato di Mosca con i greco-cattolici ucraini, chiamati “uniati” dagli ortodossi. I russi accusano gli “uniati” di fare “proselitismo” a spese degli ortodossi; i greco-cattolici rivendicano la loro fedeltà a Roma ma anche alla patria ucraina “minacciata” dai russi; e non dimenticano che un Sinodo (per loro “pseudo”) di Leopoli nel 1946 li pose fuori legge, dando le loro chiese agli ortodossi; e che solo con l’avvicinarsi del crollo dell’Urss ottennero piena libertà. Vi è da aggiungere che molti “uniati”, vescovi compresi, hanno criticato la dichiarazione finale di papa Francesco e del patriarca russo, Kirill, all’Avana, il 12 febbraio 2016, considerandola cedevole alle tesi russe
In tale contesto infuocato, nel giugno dell’anno scorso (mentre si apriva il Concilio di Creta!) il parlamento ucraino lanciò un appello a Bartolomeo I perché proclamasse l’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina. Il patriarcato ecumenico rispose creando una commissione per studiare il problema. Ovviamente, in nessun caso il responso potrebbe essere “sì”, perché quella autocefalia significherebbe la fine della Chiesa ucraina legata a Mosca. E, per protesta, la Chiesa russa si porrebbe in stato di scisma con la neonata Chiesa autocefala ucraina.
In attesa del “sì” di Costantinopoli, che non verrà mai, nel parlamento ucraino – questo maggio – circolava l’idea di un progetto di legge (poi non arrivato in aula) per proibire che Chiese ucraine dipendano dall’estero. Contro l’ipotesi, che minerebbe l’esistenza stessa della Chiesa ucraina legata a quella russa, fortissima è stata la protesta di Kirill.
Se ha spine in Ucraina, il patriarcato russo coglie, però rose in Francia. A Parigi, infatti, vicinissima alla torre Eiffel, pagata da Putin è sorta una nuovissima cattedrale ortodossa (ha una cupola d’oro!), consacrata da Kirill nel dicembre scorso. Il patriarca spera che essa diventi polo di attrazione per i molti ortodossi francesi, di origine russa, ma finora ecclesiasticamente legati, per lo più, a Costantinopoli.
Il dissidio tra Antiochia e Gerusalemme
Se antico e asperrimo è il contrasto intra-ortodosso tra russi e ucraini, recente, ma anch’esso rovente, è il contrasto tra il patriarcato di Antiochia (con sede a Damasco) e quello di Gerusalemme. La disputa è nata da una questione di giurisdizione: a chi – ecclesialmente, nell’Ortodossia – appartiene il Qatar? Da quale patriarcato, cioè, dipende l’emirato? Il problema è stato originato dalla necessità di dare adeguata assistenza pastorale alle migliaia di ortodossi negli ultimissimi anni stabilitisi a Doha per lavorare (costruzioni, assistenza familiare). Rifacendosi a normative antiche di mille e cinquecento anni – quando gran parte dell’attuale Medio Oriente era dominato dai bizantini – ciascuno dei due patriarcati ha rivendicato la giurisdizione sul Qatar.
Infine, ha vinto Gerusalemme. Per protesta, il patriarcato di Antiochia ha rotto la comunione – cioè, in senso stretto, si è posto in stato di scisma – con Gerusalemme. Bartolomeo non ha potuto comporre il contenzioso. Conseguenza: Antiochia ha disertato Creta, e mantiene la rottura con il patriarcato rivale.
L’Ortodossia custodisce tanti valori; la sua forza è il suo popolo (per capirlo, bisognerebbe visitare da vicino le chiese sparse nell’immensa Russia, quando là la gente si riunisce per la divina liturgia). Ciò non toglie che siano preoccupanti e gravi le tensioni intra-ortodosse che scuotono i vertici delle Chiese.