Si compiono 26 anni dall'elezione del Patriarca Bartolomeo. Pubblichiamo un'omelia da lui tenuta in Cappadocia, patria di grandi Padri della Chiesa
Oggi si compiono 26 anni
dall'elezione di Bartolomeo Archontinis a Patriarca ecumenico di
Costantinopoli come Bartolomeo I°. Un servizio alla sede di
Costantinopoli sempre improntato alla diaconia del messaggio ecumenico
del Vangelo e contraddistinto da varie iniziative, tra cui l’avere
stabilito l’annuale visita alle terre di Cappadocia per pregare sui
resti degli antichi monumenti e ruderi del mondo cristiano, là dove
fiorì il pensiero dei grandi padri cappadoci, un pensiero sempre
attuale. E proprio dalla sua omelia, pronunciata nel giugno scorso
durante la sua ultima visita a quelle terre, accompagnato dal Patriarca
di Gerusalemme Theofilos e dal vescovo di Bari monsignor Francesco
Cacucci, emerge un messaggio struggente e sobrio sull'operato dello
Spirito Santo. Forse la miglior guida per chi visita quelle terre.
Ecco il testo dell'omelia del Patriarca Ecumenico Bartolomeo:
Benvenuti, carissimi fratelli in Cristo, su queste terre sacre della
Cappadocia, santificate da molto sangue, lacrime di preghiera, dolori di
speranza nelle cose a venire e compianti di lutto. Terre sulle quali si
è vissuta l’ascesi, che le ha trasformate da suolo arido in terreno
fecondo, e dove la testimonianza e la teologia ortodossa hanno toccato
il loro apice, del cui frutto la nostra Santa Chiesa Ortodossa si è
sempre nutrita nel corso dei tempi. Alzi gli occhi, Sua Beatitudine, e
contempli intorno a sé la terra delle Stelle luminose di Cappadocia:
«Eccoci, siamo tutti venuti qui dall’occidente e dal settentrione, dal
mare e dall’oriente, a te», o Cappadocia, «glorificando Cristo per tutti
i secoli».
Carissimi e stimabili fratelli,
Figli nel Signore
benedetti pellegrini,
Durante l’importantissimo evento della Pentecoste «si trovavano
allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il
cielo … Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea,
della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia»
(Atti 2:5-6, 9-10). Tra questi c’erano anche dei Giudei ellenizzati
provenienti dalla Cappadocia, tra i primi ad ascoltare la predicazione
dell’apostolo Pietro e battezzarsi Cristiani, contribuendo in seguito in
modo decisivo alla cristianizzazione della Cappadocia. In Cappadocia
predicò anche «Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli dispersi nel
Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell'Asia e nella Bitinia» (1
Pietro 1:1). Qui in Cappadocia predicò, inoltre, anche Andrea, il
protocleto e fondatore della Chiesa di Costantinopoli, l’«occhio
dell’ecumene». È evidente, quindi, sin dai tempi apostolici, il nesso
indissociabile, nell’unità di fede, tra Gerusalemme, Cappadocia e
Costantinopoli e tutte le chiese ortodosse che dispensano rettamente la
parola della Verità.
Questa stessa identica e inalienabile fede tutti noi continuiamo a
preservare ancora oggi, in comunione fraterna, su queste terre
santificate della Romanità (Ρωμιωσύνη), dopo aver tolto i sandali dai
piedi, perche il suolo dove poggiamo è un suolo sacro (cf. Esodo 3:5).
Per questo, stasera, il Patriarca Ecumenico lascerà parlare, al di
sopra di ogni parola, l’eloquente natura della Cappadocia. Di quella
Cappadocia ortodossa dalla quale emersero i grandi martiri della fede, i
grandi Padri e dottori della Chiesa, specialmente durante l’età d’oro
della Chiesa, il quarto secolo dopo Cristo. E non sono emerse soltanto,
fino ai tempi nostri, grandi e importanti figure ascetiche, ma anche
figure leggendarie, quelle degli akrites [milites limitanei] quale ad esempio il popolarissimo «Basilio il Dighenìs [di due stirpi], famoso akritis, diletto e fiore rigoglioso di Cappadocia, del valore e dell’audacia il culmine».
Più in particolare siamo personalmente commossi perché in questo
luogo, chiamato Aràvissos, fu esiliato il grandissimo Padre, dottore
della Chiesa e nostro predecessore Giovanni Crisostomo, il quale, come
riportano le fonti storiche, per maggiore sicurezza fu portato qui dai
suoi custodi, durante i mesi invernali, dalla vicina città di Kukussòs,
nella diocesi del vescovo di Melitene. Proprio qui ad Aràvissos Giovanni
Crisostomo scrisse al vescovo Ciriaco, anch’egli esiliato, una lettera
piena di dolore e angoscia, con la quale cercava di consolarlo,
scrivendogli: «Molto si è tramato contro di me, per odio e gelosia. Non
soffrirne, caro fratello, ma sempre ricordati che Colui che governa il
mondo si è fatto esempio di contegno dinanzi alle provocazioni, onde
evitare di essere malvagi con gli altri. Dunque ti prego, allontana da
te il lutto della sofferenza e ricordami a Dio».
Da questi luoghi, da questo mondo presero forma le virtù e la parola
dei Cappadoci. Dopo secoli i loro devoti figli, discendenti di eroi e
santi - la nostra stirpe - si sono trapiantati, contro il loro volere,
in tutto il mondo. Di conseguenza questi luoghi, queste terre si sono
svuotate e nelle chiese non si è più potuto celebrare una messa né
benedire le tombe dei nostri avi. Le nobili dimore rimaste sono una
silente testimonianza dei giochi della storia e del principe di questo
mondo ingannevole. L’avvilimento e il buio hanno pervaso le anime di
coloro che lasciarono la patria il 4 agosto 1924, per andare a
contribuire alla crescita delle nuove terre dove si sono trapiantati.
Raccolti stasera in preghiera nella Chiesa di San Demetrio il
Megalomartire, la cui campana tace, né c’è più “cantore né sacerdote”,
né discepoli di Nostro Signore, vogliamo contemplare e vedere con gli
occhi della nostra anima per confessare, in silenziosa adorazione e con
il cuore contrito, dinanzi al mare immenso della misericordia del
Signore, evocando le parole del poeta:
«La memoria, stordita, cerca di riunire le membra sparse e quasi
sente dolore. Solo l’olfatto serba ancora il persistente odore d’olio e
cero santo che non intende staccarsi dalle chiese vuote.» [G. Seferis, Tre giorni nei monasteri della Cappadocia]
Ma la memoria guarisce e cessa di causare pena quando frequenta la
chiesa e quando fa costante riferimento al Signore della storia,
l’Áchronos [l’intemporale], Colui che salva le cose nella Sua Carità,
nella prospettiva dell’ora e sempre e nei secoli dei secoli.
Perciò, cari fratelli e figli di Gerusalemme, Cipro, Italia e Grecia,
della nostra Città e di tutta l’ecumene, lasciamo parlare i nostri
cuori attraverso le vecchie ma sempre nuove parole del grande figlio
della terra di Ionia, Fotis Kòntoglou, che condensa i significati e i
sentimenti, i dolori e i sospiri, tutto ciò che tutti noi sentiamo
sicuramente stasera.
«Sulle tegole della chiesa ondeggiano erbe alte. Ma all’interno della
cupola c’è il Pantokrator, che sembra come chinarsi dal cielo per
“prendersi cura di tutti gli uomini”. Verso sera, una dolce luce dorata
penetra nella santa torre, quasi colmandola d’incenso. In quel momento
sacro in cui tramonta il sole, entra ronzando l'ultimo devoto alato, un
sagrestano innocente.
Si avvicina con precauzione all’effige divina, gli bacia la fronte,
accarezza i baffi e la santa capigliatura, poi bacia la Sua mano,
aleggia sul Vangelo quasi a contare le perle che lo adornano e continua a
volteggiare sopra le spalle di Dio, come frugando nel panneggio del suo
abito. Girovaga in volo più volte all’interno della cupola fiutando il
profumo dell’incenso e dei ceri che da secoli esala dalla cupola
annerita. A lungo si ode il bordone tenuto da quell’innocente creatura,
una falena che non intende separarsi dal suo Signore Cristo per prendere
la via delle montagne attorno. Anzi, con il suo ronzio sembra cantare:
”Quanto sono amabili le Tue dimore, Signore degli eserciti”. Sotto, in
quel momento, il monaco canta a bassa voce l’inno «Luce gioiosa», mentre
il sole tramonta e la giornata finisce. Lacrime affiorano agli occhi di
colui che ascolta queste parole antiche, semplici e eterne come il
tramonto. Nel libro poggiato sul leggio sta scritto che è un poema di
Atenogène il martire. Vecchissimo inno, cantato ogni sera sul finire del
giorno, da duemila anni fino ad oggi, da gente semplice discesa dagli
antichi greci».
Cari fratelli,
questa luce gioiosa in gloria del nostro Padre Immortale splende
stasera nella chiesa di San Demetrio in Aràvissos. Luce di Cristo, che
tutti illumina, tenue, ma rivolta verso il tempo a venire. E tutti noi,
vedendo la luce vespertina, salmodiamo in gloria: “Sia benedetto il nome
del Signore ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen”.
* Si ringrazia il dott. Umberto Cini per il contributo alla traduzione italiana