Questa intervista con Bartolomeo I, patriarca
ecumenico di Costantinopoli, nasce nel contesto di una collaborazione
giornalistica avviata da tempo da alcuni giornali europei di ispirazione
cristiana. In questo caso il percorso è stato intrapreso insieme da Avvenire, con Stefania Falasca, con due quotidiani di ispirazione protestante, l’olandese Nederlands Dagblad, con il giornalista Anders Ellebaek Madsen, e il danese Kristeligt Dagblad con Hendro Munsterman.
Santità,
sono oggi trent’anni del suo ministero come patriarca ecumenico di
Costantinopoli. Come guarda a questo tempo trascorso, in particolare
agli incontri ecumenici che ha potuto avere con tre pontefici romani e
con i capi di altre Chiese cristiane?
Per tutto ciò che ha
concesso alla mia umile persona in tutte le circostanze della mia vita
glorifico Dio. Non sono mai stato un sostenitore di un’ortodossia
introversa. La missione della Chiesa è la testimonianza del Vangelo e la
trasformazione del mondo in Cristo, che ovviamente non si ottiene con
l’indifferenza verso di esso o con il suo rifiuto. Come patriarca ho
lottato per la stabilità e l’unità dell’ortodossia, per il dialogo
interculturale, interreligioso, intercristiano, e ho intrapreso molte
iniziative per la protezione dell’ambiente naturale, per la pace e la
solidarietà, per il rispetto dei diritti umani, il primo dei quali è la
libertà di religione, sempre attingendo alla sorgente inesauribile della
tradizione ortodossa. E la promozione dell’unità dei cristiani è un
fatto che per tutta la mia vita ho considerato di centrale importanza.
Il
cristianesimo si trova oggi tra gli anniversari simbolici dei 500 anni
della Riforma protestante (2017) e i 1.700 anni del Concilio di Nicea
(2025). A che punto è oggi il cammino ecumenico compiuto dal patriarcato
ecumenico di Costantinopoli?
Il 2020 ha segnato il 100°
anniversario della storica enciclica del patriarcato ecumenico
sull’unità dei cristiani. Questa enciclica è stata giustamente
caratterizzata come “la carta costituzionale” del Movimento ecumenico.
Sulla sua base, e con la cooperazione delle denominazioni protestanti,
il Consiglio ecumenico delle Chiese fu creato nel 1948. Questo ha
avvicinato i cristiani; ora si conoscono bene, intraprendono azioni
comuni di carità e solidarietà, producono e approvano importanti testi
teologici, sostengono i cristiani in difficoltà, e non solo. Il
patriarcato ecumenico non si limita a partecipare agli eventi ecumenici,
ma è un membro fondatore e contributore centrale della Wcc. Per il 500°
anniversario dall’inizio della Riforma luterana (1517-2017), il
patriarcato ecumenico ha partecipato a vari eventi e attività. Di
particolare importanza simbolica è il fatto che nel 1981, 400 anni dopo
la fine dei contatti teologici per corrispondenza tra Tubinga e il
patriarca ecumenico Geremia II Tranos, è iniziato il dialogo teologico
ufficiale tra la Federazione luterana mondiale e tutta la Chiesa
ortodossa. Quest’anno celebriamo il quarantesimo anniversario di questo
importante dialogo. Il modo migliore per celebrare questo anniversario è
continuare il dialogo teologico e il dialogo della vita con serietà e
sincerità.
Ciò che ci unisce è più grande
di ciò che ci mantiene
Come, secondo lei, deve svolgersi il dialogo ecumenico?
A
mio avviso il dialogo ecumenico deve svolgersi a tre livelli: a livello
di contatti fraterni personali, di iniziative comuni e di cooperazione
dei capi delle Chiese cristiane. In secondo luogo, nel contesto molto
esigente dei dialoghi teologici, ai quali è stata data un’importanza
speciale durante il nostro tempo, e dove sono stati fatti notevoli
progressi. Il terzo livello è il “dialogo della vita”, la comunicazione,
la convivenza, la solidarietà dei cristiani nelle società
contemporanee, dove il "diverso" non è più una questione di "distanza",
ma di vicinanza e prossimità quotidiana. Il "dialogo della vita"
facilita anche la ricezione delle decisioni e delle realizzazioni dei
primi due livelli. Questo dialogo è alimentato dalla preghiera al
Fondatore della Chiesa perché ci illumini a dare spazio agli altri,
senza aver paura di alterare la propria identità.
Lei ha
stabilito una fratellanza molto stretta con l’attuale successore di
Pietro. Dalla sua elezione ha avuto molti incontri con papa Francesco
che sembrano aver aperto una nuova prospettiva nel dialogo
cattolico-ortodosso. Può spiegare le ragioni di questa sintonia e come
vanno intesi questi passi?
Quando papa Francesco è stato eletto
ho deciso di partecipare alla sua cerimonia d’inizio di pontificato in
Vaticano. Da allora, sono legato a Sua Santità da vincoli fraterni. Ci
siamo incontrati una decina di volte. Abbiamo molti interessi comuni,
sensibilità e intenti comuni su questioni sociali, come la protezione
dei nostri simili che sono nel bisogno, i poveri, i rifugiati, la
promozione della pace e della riconciliazione, il dialogo
interreligioso, la protezione del creato. Naturalmente, la questione del
cammino verso l’unità e il progresso del dialogo teologico rimangono di
importanza centrale nelle nostre relazioni. Ci siamo incontrati a
Gerusalemme nel 2014 per commemorare il 50° anniversario dello storico
incontro, nel 1964, del patriarca Atenagora con papa Paolo VI nella
Città Santa. La fiducia reciproca tra me e il Papa, la volontà comune di
superare gli ostacoli e di accelerare il cammino verso l’unità
desiderata, gli incontri personali, le dichiarazioni comuni, sono tutti
contributi preziosi al più ampio sviluppo delle relazioni tra le nostre
Chiese. E qui, naturalmente, si applica il principio cristiano: l’uomo
lotta e Dio benedice e perfeziona la lotta. Il futuro – compreso
l’impegno per l’unità – è nelle mani di Dio.
Al suo ritorno da
Gerusalemme nel 2014, dove ha incontrato papa Francesco al Santo
Sepolcro, lei ha immaginato un incontro con diverse Chiese cristiane nel
2025 a Nicea, diciassette secoli dopo il primo Sinodo veramente
ecumenico, dove fu emesso il Credo. Pensa ancora che questo evento sia
possibile? Ci sono preparativi in corso? Può essere un’opportunità per
avvicinarci come cristiani?
Certamente, l’anniversario dei 1.700
anni dal Primo Concilio ecumenico di Nicea nel 2025 può servire come
occasione per le Chiese cristiane di riflettere sul loro cammino, sugli
errori del passato, così come del presente, e di intraprendere un
percorso ecumenico più determinato, capitalizzando le lezioni di più di
un secolo di esperienza ecumenica moderna. Il primo Concilio ecumenico
di Nicea è un simbolo, una stazione, una svolta nella storia del
cristianesimo, non solo perché ha formulato il Credo, ma anche perché ha
emesso 20 canoni. Nicea offre, quindi, un’occasione unica per una
valorizzazione della nostra comune eredità canonica del primo millennio e
per un esame dell’importanza del diritto canonico come strumento per la
promozione del dialogo ecumenico. I canoni, infatti, sono componenti
essenziali della ricerca di un accordo a livello di dottrina, che è
stato finora il focus principale e dominante nel discorso ecumenico
contemporaneo. L’“ecumenismo giuridico” è stato l’aspetto trascurato del
nostro dialogo teologico. L’imminente anniversario è un appello a tutti
i cristiani a considerare che ciò che ci unisce è più grande di ciò che
ci mantiene in una mera abitudine di separazione. L’unità dei cristiani
e l’approccio comune ai grandi problemi moderni non è solo una
richiesta attuale, ma anche un comando del Fondatore della Chiesa. I
grandi anniversari ci ricordano questa verità.
Dal
riconoscimento dell’autocefalia (autogoverno ecclesiale) della Chiesa
ortodossa di Ucraina, sono sorte tensioni tra il patriarcato di Mosca e
il patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Da allora, anche altre tre
Chiese autocefale hanno riconosciuto la Chiesa di Ucraina. Come
risposta, il patriarcato di Mosca ha rotto ogni condivisione
eucaristica con queste quattro Chiese. Si può parlare di scisma nella
Chiesa ortodossa?
Non c’è scisma nell’ortodossia. L’ho detto e lo
ripeto ora. C’è una visione diversa da parte della Chiesa di Russia
sulla questione ucraina, che si è manifestata nella cessazione della
comunione con la Chiesa madre di Costantinopoli e poi con le altre
Chiese autocefale armonizzate con la decisione del patriarcato ecumenico
di concedere l’autocefalia alla Chiesa di Ucraina. Secondo la nostra
valutazione, questa è stata un’azione sbagliata della Chiesa sorella di
Russia. Quindi, insisto, non c’è scisma nell’ortodossia. Purtroppo,
però, la teoria dello “scisma" proviene da alcuni rappresentanti della
Chiesa russa. Essi indulgono all’allarmismo nel tentativo di
giustificare l’atteggiamento di questa Chiesa di interrompere la
comunione eucaristica con qualsiasi Chiesa autocefala e con qualsiasi
primate o gerarca che non sia d’accordo con essa. Chi, dunque, crea una
tale atmosfera? A quale scopo? L’ortodossia, nonostante i problemi
occasionali che sorgono tra le sue Chiese autocefale locali, nonostante i
diversi approcci alle questioni amministrative, rimane unita, perché
non ci sono differenze dogmatiche. Dopo tutto, la nostra unità si basa
sull’insegnamento dogmatico consolidato della Chiesa, che è espressione
della comune tradizione patristica e sinodale, dinamicamente vissuta
nell’evento eucaristico.
L’unità ortodossa non è quindi minacciata dalla risposta del patriarcato ecumenico alla richiesta degli ortodossi ucraini...
Nella
questione ucraina abbiamo fatto lo stesso che negli altri casi di
concessione dell’autocefalia. Abbiamo seguito la tradizione
dell’ortodossia, stabilita dalla secolare pratica ecclesiastica. Ricordo
che Costantinopoli aveva già concesso, prima dell’Ucraina,
l’autocefalia ad altre nove Chiese locali. Oggi, naturalmente, alcuni
per fini egoistici, negano questo fatto evidente. Ma coloro che mettono
in discussione i diritti e le responsabilità del patriarcato ecumenico
stanno, in sostanza, mettendo in discussione la loro stessa esistenza e
identità, la struttura stessa dell’ortodossia. Il patriarcato ecumenico,
come primo Trono dell’ortodossia, avendo un’esperienza concentrata di
secoli, fedele alla tradizione canonica della Chiesa ortodossa, ha
sempre combattuto, nel quadro delle sue responsabilità, per la
conservazione dell’unità pan-ortodossa. È caratteristico che tutte le
nuove Chiese locali, fino al momento in cui hanno ricevuto la loro
autocefalia, facevano parte della giurisdizione spirituale e canonica
della Chiesa costantinopolitana. Eppure, di fronte alla conservazione
dell’unità dell’unica Chiesa ortodossa e alla realizzazione delle
condizioni storiche e delle necessità di ogni epoca, il patriarcato
ecumenico si è occupato della concessione canonica dello status di
autogoverno, affinché queste Chiese locali potessero regolare i loro
affari interni in modo indipendente, ma indissolubilmente legato alla
loro Chiesa madre di Costantinopoli. Così è successo anche nel caso
dell’Ucraina. Se Mosca avesse mostrato la volontà di collaborare,
rendendosi conto delle condizioni storiche, sociali ed ecclesiastiche
emergenti, la questione sarebbe stata risolta molti anni fa. Per tre
decenni Mosca è stata ostentatamente cieca di fronte alla tragica
situazione ecclesiastica di quel Paese. Ha essenzialmente impedito che
si trovasse una soluzione affinché Kiev, che la Chiesa di Russia aveva
sottratto alla Chiesa di Costantinopoli – approfittando di circostanze e
situazioni storiche – non sfuggisse al controllo di Mosca. La
concessione di uno status autocefalo alla Chiesa di Ucraina da parte del
patriarcato ecumenico era, quindi, non solo ecclesiologicamente e
canonicamente corretto, ma anche l’unica soluzione realistica del
problema. E, naturalmente, non è stato, come insinuato da alcuni, per
servire convenienze politiche o addirittura interessi geopolitici. È
stato un atto di responsabilità della madre Chiesa verso milioni di
nostri fratelli ortodossi che si sono trovati, senza alcuna colpa, fuori
dalla Chiesa.
Dallo scisma tra Oriente e Occidente
dell’undicesimo secolo molte Chiese ortodosse si sono trasformate in
Chiese nazionali con confini ecclesiali che si allineano a quelli
civili. Questo, secondo lei, è una minaccia per l’unità interna della
Chiesa ortodossa?
Il Grande Concilio del 1872 a Costantinopoli ha
condannato l’etnofiletismo come una grave ferita nel corpo della
Chiesa, come eresia. L’ingresso del nazionalismo nella Chiesa porta
all’allontanamento dalla cattolicità della Chiesa e abolisce il
principio della sinodalità. Si tratta di un vero e proprio
“rovesciamento di valori”. Qui la Chiesa viene giudicata in base ai suoi
servizi alla nazione e allo Stato. È inconcepibile che la nazione sia
dichiarata fattore decisivo della vita ecclesiastica, che la Chiesa
pronunci un discorso etnocentrico, si allei con movimenti politici
nazionalisti, sacrifichi l’ordine canonico in nome della nazione, neghi
il proprio riferimento escatologico e si identifichi con la cornice
storica di ogni tempo.
La fede ortodossa può favorire nazionalismi?
La
vera fede ortodossa è impossibile che sia una fonte di nazionalismo.
Ovunque appaia il nazionalismo in un contesto ortodosso, esso ha altre
radici e motivazioni. Inoltre, la Chiesa ortodossa rispettava le
caratteristiche culturali particolari dei popoli evangelizzati e
sottolineava la cattolicità della comunità ecclesiastica locale,
indipendentemente dalla sua identità nazionale e linguistica. Lo
studioso bizantino sir Steven Runciman, nella sua ultima intervista
prima della sua morte disse che «l’ortodossia è una soluzione eccellente
alla questione dell’unità dei popoli, poiché non favorisce affatto il
nazionalismo». Il patriarcato ecumenico, pur essendo nel vortice dei
nazionalismi, non si è arreso e mantiene il suo carattere
sovranazionale.
Il movimento ecumenico moderno è iniziato più
di un secolo fa. Fin dall’inizio, le Chiese ortodosse sono state molto
coinvolte, tuttavia alcuni credenti ancora oggi si rifiutano di pregare
con cristiani di altre confessioni. Perché c’è resistenza sulla via
della piena comunione? Cosa c’è da perdere o da difendere?
Nel
mondo ortodosso oggi ci sono vari gruppi che esprimono uno spirito
anti-ecumenico estremo e caratterizzano l’ecumenismo come una
“pan-eresia”. Il Santo e Grande Concilio della Chiesa ortodossa svoltosi
a Creta nel 2016 ha condannato tutti coloro che «con il pretesto di
mantenere o presumibilmente difendere la vera ortodossia» rompono
l’unità della Chiesa (Relazioni della Chiesa ortodossa con il resto del
mondo cristiano, § 22).
Quali modi possono consentire una più piena partecipazione ortodossa al cammino dell’unità dei cristiani?
Non
c’è altro modo di andare verso l’unità se non attraverso un dialogo
onesto. La mia opinione è che ciò che minaccia la testimonianza della
Chiesa non sono l’apertura e il dialogo, ma la chiusura e
l’introversione. Per la Chiesa ortodossa, lo scopo generale dei dialoghi
ecumenici è stato chiaramente definito dal Santo e Grande Concilio: «È
chiaro che nei dialoghi teologici il fine comune di tutti è la
restaurazione finale dell’unità nella vera fede e nell’amore». La Chiesa
ortodossa, attraverso la sua partecipazione ai dialoghi ecumenici, non
ha mai accettato un compromesso su questioni di fede. L’unità, che è
fondata sulla Verità, è e rimane desiderata.
Con l’introduzione
del matrimonio omosessuale in diverse Chiese e l’ordinazione delle
donne al ministero ecclesiale, tuttavia, la distanza tra le Chiese
protestanti e le altre Chiese sembra sia aumentata. Come è possibile
avvicinarci di nuovo gli uni agli altri?
Siamo preoccupati per
queste questioni, che sono il risultato degli sviluppi sociali moderni e
di una percezione ipertrofica dei diritti individuali. La pratica di
alcune denominazioni cristiane e Chiese in questa materia, crea
divisioni anche all’interno di queste comunità, come nel caso degli
anglicani, della vecchia Chiesa cattolica e dei luterani. È un fatto che
oggi i disaccordi su questioni antropologiche e morali creano nuove
difficoltà nei rapporti tra le Chiese. Ciò che viene accettato da un
punto di vista sociologico, antropologico, psicologico, non diventa
automaticamente accettabile e normativo per la Chiesa. La Chiesa ha la
sua antropologia, la sua fede nella santità della persona umana. La
verità è il criterio nella vita della Chiesa. Come si dice
teologicamente, nel cristianesimo «l’uomo non è un esperimento. È un
essere definito in termini di origine e destinazione».
Papa
Francesco nell’esortazione “Evangelii gaudium” ha indicato le Chiese
ortodosse come modello di sinodalità. Pensa che, per servire l’unità
visibile e universale della Chiesa, la “Prima Roma” avrebbe bisogno di
più sinodalità e collegialità e la “Seconda Roma” (Costantinopoli)
avrebbe bisogno di un primato più efficace?
La moderna
discussione sulla struttura sinodale della Chiesa, la comprensione e
l’applicazione nella pratica del principio della sinodalità, è
un’importante conquista teologica. Un aspetto centrale della sinodalità è
la sua connessione essenziale con l’ecclesiologia eucaristica. Non solo
ci sono eccellenti studi ecclesiologici per comprendere il ruolo del
“protos” (primus) nella Chiesa su questa base, ma anche la Commissione
internazionale congiunta per il dialogo teologico tra la Chiesa
cattolica romana e la Chiesa ortodossa ha ampiamente lavorato sulla
questione del “primato” e della “sinodalità”. La domanda posta, se la
Nuova Roma (non la “Seconda Roma”, poiché non c’è mai stata una “Prima
Roma”, ma la “Roma Anziana”) avrebbe bisogno di un primato “più
efficace”, non affronta correttamente la questione. Il ruolo del
patriarca di Costantinopoli è definito da canoni, ed è stato finora
esercitato, sempre nel quadro di questi canoni, in modo efficace. Le
controversie sull’efficacia o la non applicazione derivano da un’errata
interpretazione dei canoni, di solito a favore di chi lo fa. Coloro che
mettono in dubbio il ruolo del patriarcato ecumenico nell’Ortodossia
introducono una nuova ecclesiologia instabile. Come abbiamo affermato
molte volte, il patriarca ecumenico non può avere “pretese papali”,
perché non abbiamo bisogno di un “Papa” per il funzionamento della
sinodalità. La sinodalità è indissolubilmente legata non al papato, ma
al primato, perché non c’è Sinodo senza un primus. Questa è un’esigenza
di fede ortodossa e non solo di convenienza canonica.
Nel suo
Paese, la Turchia, la conversione di Hagia Sophia in moschea è stata
vista come una minaccia per una società turca pluralista dove i
cittadini di diverse religioni – e tra questi le diverse minoranze
cristiane – possono vivere in pace e godere della libertà religiosa?
La
trasformazione di Hagia Sophia in moschea ci ha rattristato. Il fatto
che Hagia Sophia abbia funzionato dal 1453 al 1934 come moschea non nega
il fatto che sia stata costruita come chiesa e che per nove secoli sia
stata il tempio cristiano più importante del mondo. Crediamo che la
decisione di riconvertire questo monumento in moschea abbia inviato al
mondo il messaggio sbagliato sull’importanza e la possibilità della pace
e della cooperazione tra le religioni e sul valore del dialogo
interreligioso. Invece di essere considerata un simbolo della conquista
della città da parte dei turchi ottomani, Hagia Sophia potrebbe essere
proiettata, in modo più autentico, come un simbolo della coesistenza
pacifica di diverse tradizioni, della solidarietà e del dialogo. Lo
stesso vale per la riconversione del monastero di Chora (Kariye) in
moschea.
Quali sono le azioni specifiche – oltre alla preghiera
– che lei incoraggerebbe da parte delle Chiese europee di fronte alla
persecuzione dei cristiani in molte aree del Medio Oriente?
Il
Santo e Grande Concilio di Creta ha discusso questo problema e ha
condannato inequivocabilmente la persecuzione e l’uccisione di membri di
comunità religiose, la coercizione a cambiare fede, la distruzione di
templi e simboli religiosi e altri monumenti culturali. Ha espresso la
preoccupazione delle Chiese per la situazione dei cristiani in Medio
Oriente e ha invitato i governi della regione a proteggere la
popolazione cristiana in questa culla della nostra fede. Il Concilio ha
sottolineato che essi hanno «il diritto inalienabile di rimanere nei
loro paesi come cittadini con pari diritti» (Enciclica, § 18). Crediamo
che la questione dell’intolleranza religiosa e della violenza in nome di
Dio e della religione debba essere al centro dell’attenzione nei
dialoghi interreligiosi. Le religioni devono sviluppare il potenziale di
pace e fraternità insito in esse. La pace, a cui si riferiscono, non è
solo una pace interna, ma riguarda anche la pace e la giustizia nella
società e nelle relazioni tra le religioni.
Secondo lei, da cosa dipende oggi la credibilità delle religioni?
Oggi
la credibilità delle religioni è ampiamente giudicata dal loro
contributo alla lotta per la pace. Non è accettabile che le religioni,
forze di pace e riconciliazione, possano essere fanatiche e divisive.
Per raggiungere la pace non bastano né il progresso della scienza, né lo
sviluppo economico, né la comunicazione via internet. Noi cristiani,
nel ministero della pace e nella lotta per la giustizia, abbiamo il
dovere supremo di mostrare l’unità inseparabile dell’amore per Dio e
dell’amore per il prossimo.
Chi è
Tra le innumerevoli opere e attività svolte ha presieduto sette sinassi dei primati delle Chiese ortodosse tenutasi a Costantinopoli e Gerusalemme e Sofia. Ha organizzato e ha partecipato a diversi incontri internazionali e interreligiosi per promuovere la pace e la protezione del Creato in tutto il mondo (e a motivo di questo suo speciale impegno la Pontificia Università Antonianum lo scorso 21 ottobre gli ha conferito il dottorato honoris causa). Nel 2014 in occasione della festa di sant’Andrea ha ricevuto al Fanar a Costantinopoli papa Francesco. Con lui e l’arcivescovo ortodosso di Atene Geronimo II Il 16 aprile 2016 aveva visitato il campo di Mòrias sull’isola di Lesbo, per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dei profughi.
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