Domenica 11 novembre si è tenuto a Bose un incontro a cinquant'anni dall'inizio della vita comunitaria di fratelli e sorelle a Bose, cui hanno partecipato con grande affetto numerosissimi amici e ospiti che accompagnano la comunità, lungo questi anni fino ad oggi.
Un incontro di anamnesi e ringraziamento, non di celebrazione o autocelebrazione, confessione della misericordia di Dio e sguardo verso il futuro, memoria di una storia che ci supera, di una responsabilità, della grazia di incontri vissuti,“una storia fatta di volti, di nomi, di incontri, di relazioni che si sono venute creando e intrecciando” come ha ricordato il priore fr. Luciano nel saluto iniziale: “Non solo non siamo i protagonisti, ma noi siamo i primi testimoni, stupiti, di quel che il Signore ha compiuto… . Ogni storia è storia di grazia e di peccato, di fedeltà e di infedeltà. Anche la nostra la è. E dunque oggi è anche l’occasione di chiedere perdono o di esprimere il desiderio di chiedere perdono a coloro che possiamo aver ferito, non capito, escluso, a cui possiamo aver fatto del male. L’anamnesi che il Magnificat fa del passato si apre, a un certo punto, al futuro: “d’ora in poi”. Per noi, ricordare i 50 anni di storia della comunità è anche prendere coscienza di un’eredità, di un lascito e dunque di una responsabilità. Responsabilità, certo, a tanti livelli ma, anzitutto, responsabilità verso la vita, la vita della comunità, la vita delle persone che ne fanno parte, la vita dei giovani, di coloro che, entrando ora in comunità, entrano in una realtà che ha mezzo secolo di storia.”
Fr. Enzo ha quindi letto un messaggio di papa Francesco pervenuto per l’occasione, che ci ha molto commosso e rallegrato, e ha percorso le ragioni del ringraziamento, confessando la sua “esitazione a proporre questa giornata perché mai abbiamo voluto celebrazioni della nostra realtà, né dare testimonianza a noi stessi, è nel nostro stile impedire che gli sguardi si dirigano alle nostre persone o alle nostre “opere”. Siamo solo dei peccatori chiamati a convertirci perché attirati dalla grazia, dallo spirito del Signore.Siamo una comunità piccola, una comunità che sovente ci appare come una baracca; una comunità che non è esente dalle fatiche e dalle sofferenze che oggi la chiesa vive nel mondo e che gli uomini e le donne conoscono nel duro mestiere di vivere.Proprio per questa convinzione, la nostra giornata vissuta con ospiti e amici fedeli, ha come centro l’eucaristia: il rendimento di grazie al Signore. Se non fosse così, questo nostro esserci incontrati non solo sarebbe vano ma rischierebbe di essere mondano”
Fr. Enzo ha quindi proseguito: “Il primo ringraziamento va a tante persone, doni che Dio ci ha fatto. L’incontro con queste persone ha segnato una strada, prima mia e poi della comunità. E così non posso dimenticare quel crogiolo in cui sono germinate e maturate intuizioni, quella stagione, quando si viveva il concilio Vaticano II, quando la grazia del Signore ci permise quella straordinaria avventura di giovani universitari, cattolici, valdesi e un ortodosso, che leggevano insieme le sante Scritture e seguivano puntualmente lo svolgersi del concilio.
In questa gestazione di una futura ma incerta realtà comunitaria, ricordo la guida affettuosa del cardinale Michele Pellegrino, il pastore Paolo Ricca, p. Eugenio Costa sr s.j., a Torino, don Elia Eliseo; ma anche la grazia dell’amicizia di Roger Schutz, il priore di Taizé, e del patriarca di Costantinopoli Athenagoras. Per tutto il gruppo, per un giovane come me poco più che ventenne, tutto questo mi pareva e mi pare ancora un eccesso di doni da parte del Signore.
Al padre Michele Pellegrino va un ringraziamento soprattutto per l’inizio della vita a Bose. Fu il cardinal Pellegrino che volle prendersi cura di me ancora solo qui a Bose e in seguito chiese ai vescovi del Piemonte di lasciare a lui la responsabilità di questo esile inizio di vita monastica. Fu lui che nel giugno 1968, qualche mese prima dell’inizio della vita comunitaria, volle venire qui, vivere con noi una giornata, farci il dono di una conferenza sulla “fede di Pietro in sant’Agostino” e confermarci paternamente nel cammino che stavo percorrendo. Subito dopo, incaricando il p. Eugenio Costa sr, un santo gesuita, di vigilare sulla nostra comunità, ci ha accompagnati con amicizia fino alla fine del suo ministero, visitandoci a Bose e ogni volta mostrandosi padre attento a ciascuno e attento al cammino che percorrevamo.
Così nell’ottobre del 1968, dopo quasi tre anni di vita solitaria, anche se mai sono mancati amici e ospiti, ecco arrivare i primi fratelli per “vivere qui una vocazione monastica”… Eravamo senza elettricità, dunque vivevamo con lumi a petrolio e candele; l’acqua potabile era presente solo in cucina e in un antro fuori, nel cortile. Eravamo poveri, forse anche miseri, ma le case dovevano essere riparate, mancavano gli infissi, il freddo d’inverno ci prostrava. È stato il nostro noviziato, molto ascetico. Ma la vita comune iniziò con convinzione, entusiasmo, vera passione per la sequela di Gesù e la via monastica. Il Signore ci sosteneva e ci accompagnava con segni, affinché potessimo confermare la nostra vocazione e le nostre scelte.
Eravamo una “banda”, per dirla al modo degli storici medioevali, ma consapevoli del fine che ci era stato messo davanti. Nessuna esitazione sulla nostra forma monastica, che non è mutata in un nulla di sostanziale in questi cinquant’anni.Allora come oggi la preghiera (traducemmo in italiano l’Office de Taizè), al mattino, a mezzogiorno e al tramonto; la veglia nella notte del sabato; l’accoglienza di tutti, di molti pellegrini e mendicanti, nomadi, tra i quali un sediaio e un senza casa che hanno vissuto con noi per anni: una vera grazia che non posso dimenticare! In quegli anni le venute qui di p. Jean Gribomont, di Jean Leclercq, di p. Placide Deseille, grandi fari di spiritualità monastica, ci hanno aiutato molto. E poi le venute cariche di paternità del metropolita Emilianos Timiadis, che in seguito è venuto a trascorrere con noi come monaco gli ultimi anni della sua vita. Grazie e grazie!
Una tappa significativa per la comunità è stata l’alba di Pasqua, il 22 aprile 1973, quando alle 4 del mattino i primi fratelli e la sorella, 7 in tutto, hanno emesso la loro professione monastica. Questi primi sette, uno dei quali, Edoardo, è già morto e ora vive con noi nella comunione dei santi, emettevano i voti monastici di celibato e di vita in alleanza, accogliendo come regola di vita la Regola di Bose, da me scritta e da tutti discussa, accolta e approvata nel capitolo del 4 ottobre 1971, celebrato a Sotto il Monte, ospiti di p. David Maria Turoldo.
La comunità aveva così una regola che la inseriva nella grande tradizione monastica e subito ricevette i segni di una grande comunione da parte di alcuni monasteri che erano da noi frequentati: Bellefontaine, il cui abate mi consegnò l’abito monastico che ho ancora, la-Pierre-qui-Vire, Tamié, En Calcat, St. André de Clerlande, ma anche il monte Athos e il monastero copto di san Macario in Egitto rifondato da Matta el Meskin… Non ci sentivamo più soli! Certo, non dimentichiamo che quelli erano gli anni difficili del post-concilio, epoca tanto travagliata e attraversata da contestazioni ecclesiali. Ma la comunità restò sempre fedele alle esigenze della comunione ecclesiale e fu ancora una grazia quella di non essere stati sballottati dal vento che tirava…
Altri fratelli e altre sorelle, intanto, entravano a far parte della comunità, e alla fine degli anni ’80 la nostra fraternità a Bose appariva solida: una trentina di uomini e donne che riuscivano a vivere del loro lavoro, senza ricevere né offerte né finanziamenti da nessuno, in una vita in cui il primato andava alla parola di Dio accolta nella lectio divina e nella celebrazione eucaristica. Una vita con accenti cenobitici, senza possibilità di derive eremitiche e solitarie, ma capace, attraverso il segno dell’ospitalità, di ascoltare, accompagnare e tenere legami con gli uomini e le donne che chiedono e desiderano accoglienza.
Non possiamo certo dimenticare la vicinanza alla nostra comunità, in quegli anni, del vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi, che ci visitava quando nessuno osava venire a Bose; Bettazzi ebbe anche il coraggio di scrivere la prefazione alla I edizione dellaPreghiera dei giorni, nel 1973... E poi il patriarca di Venezia, il cardinale Marco Cé, del cardinale Carlo Maria Martini, e le conversazioni così feconde con don Giuseppe Dossetti: presenze alle quali la comunità deve molto, deve più di ciò di cui è cosciente, perché di fatto hanno aiutato la comunità a camminare, a crescere e soprattutto ad amare il Vangelo. E poi l’amicizia, lo scambio, le iniziative comuni con don Michele Do, don Cesare Massa, p. David Maria Turoldo e don Cristiano di Padova, presenti alla nostra prima professione monastica; p. Ernesto Balducci, Giannino Piana, Giuseppe Alberigo: iniziative che volevano un’attuazione del concilio nelle nostre chiese.
Non posso fare l’elenco e far echeggiare qui e ora i tanti nomi che meritano memoria per quello che hanno significato per la nostra comunità: da Anna Portoghese, a p. Louis-Albert Lassus, a fr. Thaddée Matura, a Roberto Cerati, don Angelo Casati, don Luigi Pozzoli, don Luigi di Rivarolo… Ho voluto ricordare solo i più conosciuti dalla comunità e dai nostri amici, ma molti sono quelli che in modo non appariscente, a volte nascosto, ci hanno sostenuto e consolato: molti, molti, e tutti vogliamo ringraziare nel Signore!
E infine il ringraziamento al Signore per due doni che contraddistinguono la nostra comunità, doni gratuiti che il Signore ci ha fatto e per i quali noi abbiamo dovuto solo apprestare le nostre vite, per accoglierli.
Innanzitutto il grande dono di aver fatto di Bose un luogo ecumenico. Ecumenico per la composizione della comunità, ma ecumenico per ciò che viviamo in dialogo, in confronto, in ascolto, in solidarietà con le chiese cristiane d’oriente e d’occidente. Le chiese ortodosse hanno trovato qui a Bose un luogo d’incontro e di scambio dei doni, e la presenza in mezzo a noi di vescovi e monaci ortodossi lo attesta. L’amicizia lunga e fedele con il patriarca Bartholomeos, segnata dalle sue frequenti visite; l’amicizia con il patriarca di Antiochia Ignazio IV Hazim e con l’attuale patriarca Juhanna X; l’amicizia con il patriarca copto Tawadros e con anba Epiphanios di san Macario; l’amicizia con il metropolita Ilarione del patriarcato di Mosca. Tutti questi legami sono per noi una grande responsabilità verso le chiese ortodosse. Dobbiamo inoltre riconoscere che anche dalle chiese della Riforma riceviamo un’attestazione di attenzione e stima grande e sovente i loro pastori sostano tra di noi per percorrere insieme vie di comunione. Impossibile nominarli tutti, ma non dimentico il primate di Canterbury, Rowan Williams, che tante volte ha sostato per un tempo di ritiro tra di noi.
L’altro grande dono che il Signore ci ha fatto è la vita di fratelli e sorelle insieme. Dopo cinquant’anni, confessiamo che è una vita non solo possibile ma feconda e ricca di doni, che condividiamo nel quotidiano della preghiera e del lavoro, del poter dire “quanto è bello vivere insieme come fratelli e sorelle” (cf. Sal 133,1).L’iniziativa intrapresa di una vita delle nostre sorelle con le sorelle benedettine a Civitella S. Paolo, vero segno profetico dell’unità del monachesimo e della solidarietà nella vocazione, si è rivelata una grazia. Oggi si fa più che mai urgente che le tradizioni monastiche si aiutino e si integrino, anche per non arrendersi alla precarietà di quest’ora per la vita monastica.
In questa fecondità fu possibile fondare le fraternità a Saint-Sulpice, in Svizzera, a Gerusalemme, a Ostuni, ad Assisi e a Cellole. Quando alla sera faccio memoria di queste realtà davanti al Signore, mi stupisco e ringrazio perché tutto questo eccede ogni nostro pensiero e progetto.
Quanto alla comunità, ridico e confermo le parole finali della nostra Regola:
Fratello, sorella,
tu hai costruito e costruisci ogni giorno la comunità. Ma non preoccuparti di dare continuità storica all’intuizione iniziale. Cerca piuttosto che la comunità sia un segno, veglia sull’autenticità di esso, e non permettere che sia reso opaco dall’istituzionalizzazione massiccia. Non pensare alla tua vecchiaia né al domani della comunità. Vivi l’oggi di Dio.
Una sola cosa sia la tua preoccupazione: cercare il regno di Dio vivendo l’Evangelo nella comunità cui sei stato chiamato. Il Signore ti benedica e ti protegga, faccia risplendere su di te la sua presenza e ti dia la pace: fino a quando scoprirà per te il suo volto. Amen (RBo 48).”
È seguita alle ore 12 la celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Gianfranco Ravasi e concelebrata dal vescovo emerito di Ivrea Luigi Bettazzi (95 anni), ultimo padre conciliare vivente in Europa.
Poi il pranzo di festa e alle 15.00 il saluto del vescovo di Biella + Roberto Farinella (“La comunità di Bose non è ospite, ma parte integrante della nostra chiesa locale”) e l’ascolto di voci diverse che appartengono alla comunità, fratelli e sorelle degli inizi, e altri che sono stati presenze significative per la nostra comunità: i primi fratelli Domenico e Daniel, la priora della comunità di Grandchamp sr. Anne-Emmanuelle – che ha letto un messaggio di sr. Christianne, inviata a Bose nel 1968 per sostenere l’avvio della vita comunitaria – sorella Lisa, Clara Gennaro, m. Maria Pia Matiz, badessa del monastero di Santa Scolastica, la responsabile della comunità di Cumiana m. Maria Luisa Brunetti. Ha concluso questa azione di grazie attraverso i ricordi + Luigi Bettazzi.
Il tutto in una grande semplicità e in un clima sobrio, caldo – nonostante il tempo uggioso! – e sincero, molto umano e partecipato.
Con profonda gratitudine verso tutti coloro che ci hanno dato in questi giorni segni di vicinanza e comunione, chiediamo di pregare il Signore affinché nella vita monastica cerchiamo di perseverare a vivere il Vangelo in spirito di ringraziamento, nella comunione con gli altri cristiani e nella compagnia degli uomini