di Enzo Bianchi
XXVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa
CHIAMATI ALLA VITA IN CRISTO
Nella chiesa, nel mondo, nel tempo presente
Monastero di Bose, 4-6 settembre 2019
CHIAMATI ALLA VITA IN CRISTO
Nella chiesa, nel mondo, nel tempo presente
Monastero di Bose, 4-6 settembre 2019
“Quelli che vivono in Cristo sono chiamati con una chiamata costante e
continua tramite la grazia impressa nell’anima dai misteri, questa
grazia che è, come dice Paolo, Lo Spirito del Figlio di Dio che grida
nel loro cuore: Abbà, Padre!”
Introduzione
Nell’odierno contesto socio-culturale il termine “vocazione” è indubbiamente polisemico, con diversi significati a seconda degli ambienti in cui questa parola risuona.
In ogni caso, la vocazione riguarda sempre un soggetto, una voce, un impulso, una forza che chiama e dunque richiede ascolto, adesione e risposta da parte del destinatario a cui si rivolge. La vocazione è un fenomeno intrinsecamente relazionale, sempre collocato nella complessa rete delle relazioni tra il chiamato e gli altri e, più in generale, nella dinamica della storia di una vita.
Potremmo dire che nell’ebraismo e nel cristianesimo la lettura della storia dell’umanità si manifesta come testimonianza di ripetute vocazioni e chiamate da parte di Dio: Dio chiama all’esistenza le cose, le creature del cielo e della terra; chiama all’esistenza l’uomo e la donna; chiama Israele e poi tutte le genti della terra al Regno, attraverso la sua venuta nella carne in Gesù Cristo, suo unico Figlio. Per questo i libri santi sono definiti dagli ebrei Miqra’ (dal verbo ebraico qara’, “chiamare”), dunque sono il libro che chiama e convoca attraverso la parola del Signore. Non si dà parola che non esprima una chiamata; non si dà parola che non sia indirizzata, rivolta; non si dà parola che non sia creatrice di vita e di eventi, come testimonia del resto anche il termine ebraico dabar, che designa sia la parola sia la cosa, l’evento.
1. Chiamata cosmica
Purtroppo quando si riflette sulla vocazione non si fa riferimento, se non in modo periferico, alla chiamata cosmica, alla chiamata all’esistenza di tutte le creature da parte di Dio.
Eppure è decisivo cogliere questa vocazione, perché l’esistenza di ogni creatura del cielo e della terra implica e significa il suo essere stata chiamata. Dio non ha creato le cose solo per fornire all’umanità un proscenio, per gettarle impersonalmente nell’esistenza, ma le ha chiamate per nome, e la creazione può essere descritta come un accorrere delle creature che rispondono alla sua parola: “Quando io le chiamo, si presentano tutte insieme” (cf. Is 48,13). Solo ciò che Dio ha voluto è venuto all’esistenza e sussiste, in relazione con lui.
Dio, infatti, ama tutte le cose esistenti, nulla disprezza di quanto ha creato, perché se avesse odiato qualcosa non l’avrebbe neppure creato. Tutte le cose appartengono al Signore, l’Amante della vita, e in tutte c’è il suo Spirito santo (cf. Sap 11,24-26). L’esistenza delle creature non è nient’altro che il loro rispondere: “Eccoci! Presenti!” (Bar 3,35) alla chiamata di Dio.
All’in-principio, in cui si attesta come un ritornello che nei giorni della creazione del mondo “Dio disse” (Gen 1,3-30), corrisponde la visione cristiana espressa nel prologo del vangelo secondo Giovanni: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui”, il Lógos toû Theoû, “e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,3). Le creature del cielo e della terra non sono dovute né al caso né alla necessità, ma sono state chiamate all’esistenza dal Dio che le ha volute nella sua libertà e per amore.
È soprattutto l’Apostolo Paolo che giunge a leggere il télos di tutte le creature nell’orizzonte escatologico, rivelando la vocazione inscritta in esse. Egli intravede che nell’opera di salvezza compiuta dal Cristo risorto tutte le creature saranno reintestate, ricapitolate in Cristo stesso (cf. Ef 1,10), “affinché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28). Attraverso l’incarnazione e l’effusione dello Spirito santo su tutto il cosmo Dio fa “cieli nuovi e terra nuova” (cf. Is 65,17; 2Pt 3,13; Ap 21,1) e trasfigura “la creazione che geme e soffre fino a oggi le doglie del parto, nutrendo la speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione” (cf. Rm 8,21-22) per diventare dimora del Regno. Siamo chiamati a riconoscere questa vocazione cosmica e, assumendo la responsabilità consegnata ad Adamo di custodire questa terra (cf. Gen 2,15), non dobbiamo mai contraddirla. La custodia del creato non fa solo parte della nostra vocazione, ma è con-creazione, perché permette alle creature stesse di rispondere alla chiamata rivolta loro dal Dio creatore.
2. Chiamata umana
All’apice di tutta l’opera della creazione, chiamata cosmica, sta l’umano, quale ’Adam tratto dalla ’adamah e posto nel giardino, il gan ‘eden (cf. Gen 2,8), sta l’umano quale creazione voluta, plasmata e fatta da Dio “a sua immagine e somiglianza” (cf. Gen 1,26-27). L’esistenza umana è dunque la chiamata primaria che si situa nell’economia creazionale: è chiamata alla vita, a una vita conforme all’immagine di Dio.
Per questo la prima delle dieci parole date da Dio a Israele è il divieto di farsi immagini di Dio stesso (cf. Es 20,4; Dt 5,8), perché l’immagine di Dio posta una volta per sempre nel mondo è l’umano, l’’Adam (cf. Dt 4,16-18). Questa vocazione è impressa nell’’Adam proprio attraverso l’immagine di Dio che non può mai andare distrutta o persa, in qualunque condizione l’umano venga a trovarsi. Come già affermavano i padri della chiesa, infatti, nel peccato gli esseri umani possono contraddire la somiglianza con Dio, ma non possono mai perdere la sua immagine. È questa immagine di Dio, eloquente in ogni uomo in ogni donna, che è vocazione, che si fa voce nel cuore nella coscienza di ciascuno, spingendolo a pronunciare un “amen” alla vita: è un desiderio di pienezza e di felicità, una chiamata a “poter essere”.
La vocazione è ciò che fa l’uomo e lo umanizza, perciò è vocazione umana singolare e universale al contempo, vocazione dalla quale nessuno è escluso, anche se nella propria libertà chiunque si può rifiutare di ascoltarla e di accoglierla. Ogni umano, in quanto tale, sente in sé, nelle sue profondità più segrete, nel santuario della sua coscienza accessibile a lui solo, una chiamata, un impulso, un desiderio a uscire da se stesso per essere capace di responsabilità, dunque di rispondere alla chiamata rivoltagli dalla vita. Solo così si può cogliere che la propria vita è unica, che non ve ne sarà un’altra a disposizione e che per questo va vissuta in una forma “sensata”, una forma che acconsenta alla salvezza.
Cosa fare della propria vita per non buttarla, per viverla in pienezza, per trovare senso, anzi il senso dei sensi, fino a farne un’opera d’arte? Questa vocazione umana va generata, custodita, temprata e confermata da ogni persona ma anche da quanti sono in relazione con colui o colei che è chiamato a fare della sua vocazione il mestiere di vivere. Se invece il vivere è senza vocazione, diventa intollerabile; e se la vocazione non diventa mestiere di vivere, allora si permane in una situazione frammentaria, “liquida”, sfilacciata, che non consente un cammino di autentica umanizzazione.
C’è dunque una vocazione umana alla vita, a “poter essere”, che deve abitare ogni persona: così nasce la responsabilità verso gli altri e verso il mondo, così si attua la missione che è sempre realizzazione della vocazione, sempre risposta alla chiamata.
3. Chiamata cristiana
Nel delineare la vocazione umana ho cercato di fare emergere come la prima chiamata sia la chiamata alla vita, all’esistere. Se da parte degli umani manca questa consapevolezza e questa coscienza della vocazione primaria, allora la vocazione cristiana non può essere né percepita né compresa, resta come inattiva. Deve infatti essere chiaro che la vocazione cristiana non è un’altra vocazione ma si innesta sul cammino di umanizzazione in cui si è capaci di ascoltare la voce della coscienza.
Avviene per la vocazione cristiana ciò che è dinamicamente descritto nella parabola del buon seme (cf. Mc 4,1-20 e par.). Se il terreno è zappato e lavorato, allora può accogliere la parola di Dio, dunque la sua chiamata; se invece è un terreno arido, calpestato, ingombro di idoli, la vocazione non può essere percepita e perciò viene soffocata. Sono infatti possibili diverse resistenze alla vocazione, come ci testimonia anche il vangelo: resistenze all’attrazione esercitata da Gesù con la sua autorevolezza, resistenze all’azione dello Spirito santo, incapacità di accogliere la buona notizia senza esserne scandalizzati…
Ma esiste una specificità della vocazione cristiana? Sì, è la specificità della chiamata a vivere “in Cristo”: en Christô, secondo quel sintagma così ricorrente nelle epistole paoline, espressione che riassume da sé sola il cammino della vita cristiana. È la chiamata a essere conformi a lui, il vero e definitivo Adamo, il Figlio di Dio nel quale siamo chiamati a diventare a nostra volta figli e figlie di Dio. È significativa la frequente ricorrenza del vocabolario della chiamata applicato prima ai discepoli storici di Gesù, nei vangeli, poi ai credenti in lui, nei testi apostolici: “chiamati a essere santi” (Rm 1,7); “chiamati secondo il disegno di Dio” (Rm 8,28); “chiamati alla comunione con Cristo” (1Cor 1,9); “chiamati alla libertà” (Gal 5,13); “chiamati alla speranza” (Ef 4,4); “chiamati al Regno” (1Ts 2,12); “chiamati alla santificazione” (1Ts 4,7), ecc.
I cristiani sono i chiamati (kletoí) per eccellenza e la loro comunità è ek-klesía, adunanza di chiamati. La vocazione essenziale dei cristiani e quella ricevuta nel battesimo ed è vocazione unica, anche se possiamo definirla in diversi modi: vocazione alla santità, alla vita in Cristo, alla pienezza della carità, alla beatitudine… Ma quali sono le tappe fondamentali di questo cammino, di questo itinerario pensato nella tradizione cristiana a volte come una salita verso il cielo, come una scala che dalla terra giunge a Dio stesso, altre volte, più raramente, come una discesa? Poco importa l’immagine adottata e va anche detto che, all’interno dei vari percorsi, le tappe non sono sempre definite con precisione; ma ciò che è decisivo è il compimento di un passaggio dalla dissomiglianza alla conformità: si tratta di compiere un esodo pasquale.
Il cristiano che accetta di “camminare secondo lo Spirito” (cf. Gal 5,16) acconsente a questa sua pasqua in cui offre la sua vita nella carne (en sarkí) come sacrificio vivente, come culto secondo il Lógos (cf. Rm 12,1), e così si ritrova quale figlio vivente della stessa vita di Dio. Ecco dunque l’evento della vocazione come evento reso possibile dallo Spirito santo; evento in cui la parola di Dio risuona con efficacia e chiama alla conversione, che è orientamento della propria vita verso il Signore vivente. Si tratta, per il chiamato, di essere capace di ascolto, di essere disponibile alla metánoia. “Lo Spirito santo si unisce al nostro spirito” e ci svela la nostra identità profonda, ciò che siamo e ciò che dobbiamo divenire; “figli di Dio” (Rm 8,16)! Attraverso le energie dello Spirito la reversio in se spinge alla conversio ad Deum.
E così le domande umanissime che abitano il nostro cuore – “Chi sono? Da dove vengo? Dove vado” – trovano risposta nel “credere all’amore di Dio” (cf. 1Gv 4,16) che non deve mai essere meritato. Credere all’amore di Dio è la condizione alla quale si deve pervenire per iniziare la seconda tappa del cammino: la sequela del Signore. Sequela perché il Signore Gesù Cristo ci precede e ci propone di seguirlo. “Seguimi!” è la sua parola rivolta a ogni cristiano: la chiamata non è mai generale, impersonale, né tanto meno può essere motivata da un progetto o da una risposta a urgenze, pure buone, emergenti nell’oggi della chiesa o della società. La parola del Signore che chiama è sempre una chiamata a “stare con lui” (cf. Mc 3,14), personalmente, a “seguirlo ovunque egli vada” (cf. Ap 14,4), ad amarlo al di sopra di tutti e di tutto.
La vita di sequela del cristiano diventa così un’assunzione dei sentimenti (cf. Fil 2,5) e dei pensieri di Cristo (cf. 1Cor 2,16); un camminare come lui ha camminato (cf. 1Gv 2,6); uno stare nel mondo, nella compagnia degli uomini, operando il bene (cf. At 10,38); un vivere, morire e risorgere come egli è vissuto, è morto ed è risorto. La vita umana del cristiano coincide dunque con il vivere l’esistenza umana di Gesù. E il cristiano vive questa sequela nella luce della resurrezione del suo Signore vivente per sempre, vincitore sulla morte e sul peccato.
Ma la sequela è anche inabitazione di Cristo. Cristo non lo si segue soltanto per giungere alla conformità con lui, ma lo si sperimenta anche come colui che è precursore (pródromos: Eb 6,20), come colui che abita in noi. Perché la sua parola dimora in noi (cf. Gv 5,38), il suo corpo e il suo sangue, nel metabolismo eucaristico, ci fanno diventare corpo e sangue di Cristo (cf. Gv 6,56), ci rendono tempio di Dio, abitazione dello Spirito santo (cf. 1Cor 3,16). Questa coscienza della presenza di Cristo “in noi” e di ciascuno di noi “in lui” è decisiva nella vita cristiana. Possiamo dire di scorgere segni dell’adempimento della nostra vocazione quando sappiamo riconoscere Cristo in noi, rispondendo alla domanda rivolta da Paolo alla giovanissima comunità cristiana di Corinto: “Esaminate voi stessi, se siete nella fede, mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?” (2Cor 13,5). O ancora, quando nella fede osiamo dire, sempre con l’Apostolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita, che io vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).
Questa è la condizione cristiana, il “mistero”, come lo chiama ancora l’Apostolo: “Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27). Questa incorporazione a Cristo è la grande opera dello Spirito santo, “l’altro Paraclito” (Gv 14,15), che manifesta quale frutto della sequela l’inabitazione di Dio, ossia il dimorare del cristiano in Dio, cioè nell’agápe.
Conclusione
Così, per grazia e per la potenza dello Spirito santo, il cristiano conosce – secondo la spiritualità dell’oriente cristiano – la théosis, la divinizzazione. Si realizza allora il famoso adagio di Atanasio di Alessandria: “Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio” (L’incarnazione 54,3).
Da portatore della croce, stauroforo (sequela),
il cristiano diventa portatore dello Spirito, pneumatoforo (inabitazione),
fino a diventare “partecipe della natura stessa di Dio” (2Pt 1,4; divinizzazione).
L’occidente, dal canto suo, mette piuttosto l’accento sull’incarnazione, sull’umanizzazione di Cristo, dunque sulla conformità del discepolo al Cristo stesso, conformità che può giungere a fare del discepolo un “somigliantissimo” al suo Signore.
In ogni caso, la chiamata alla vita in Cristo, sia in oriente sia in occidente, è sempre chiamata alla santità ottenuta in dono grazie alle energie dello Spirito santo: il chiamato cede giorno dopo giorno alla grazia che lo attira, fino a fare di lui “una creatura nuova” (2Cor 5,17; Gal 6,15). Ed è lo Spirito, “compagno inseparabile di Cristo” (cf. Basilio di Cesarea, Sullo Spirito santo 16,39), che permette a ogni cristiano di sentire in sé una voce che come acqua zampillante ogni giorno gli ripete nell’intimo, quale sigillo della chiamata a vivere in Cristo: “Vieni al Padre!” (Ignazio di Antiochia, Ai romani 7,2).
Nell’odierno contesto socio-culturale il termine “vocazione” è indubbiamente polisemico, con diversi significati a seconda degli ambienti in cui questa parola risuona.
In ogni caso, la vocazione riguarda sempre un soggetto, una voce, un impulso, una forza che chiama e dunque richiede ascolto, adesione e risposta da parte del destinatario a cui si rivolge. La vocazione è un fenomeno intrinsecamente relazionale, sempre collocato nella complessa rete delle relazioni tra il chiamato e gli altri e, più in generale, nella dinamica della storia di una vita.
Potremmo dire che nell’ebraismo e nel cristianesimo la lettura della storia dell’umanità si manifesta come testimonianza di ripetute vocazioni e chiamate da parte di Dio: Dio chiama all’esistenza le cose, le creature del cielo e della terra; chiama all’esistenza l’uomo e la donna; chiama Israele e poi tutte le genti della terra al Regno, attraverso la sua venuta nella carne in Gesù Cristo, suo unico Figlio. Per questo i libri santi sono definiti dagli ebrei Miqra’ (dal verbo ebraico qara’, “chiamare”), dunque sono il libro che chiama e convoca attraverso la parola del Signore. Non si dà parola che non esprima una chiamata; non si dà parola che non sia indirizzata, rivolta; non si dà parola che non sia creatrice di vita e di eventi, come testimonia del resto anche il termine ebraico dabar, che designa sia la parola sia la cosa, l’evento.
1. Chiamata cosmica
Purtroppo quando si riflette sulla vocazione non si fa riferimento, se non in modo periferico, alla chiamata cosmica, alla chiamata all’esistenza di tutte le creature da parte di Dio.
Eppure è decisivo cogliere questa vocazione, perché l’esistenza di ogni creatura del cielo e della terra implica e significa il suo essere stata chiamata. Dio non ha creato le cose solo per fornire all’umanità un proscenio, per gettarle impersonalmente nell’esistenza, ma le ha chiamate per nome, e la creazione può essere descritta come un accorrere delle creature che rispondono alla sua parola: “Quando io le chiamo, si presentano tutte insieme” (cf. Is 48,13). Solo ciò che Dio ha voluto è venuto all’esistenza e sussiste, in relazione con lui.
Dio, infatti, ama tutte le cose esistenti, nulla disprezza di quanto ha creato, perché se avesse odiato qualcosa non l’avrebbe neppure creato. Tutte le cose appartengono al Signore, l’Amante della vita, e in tutte c’è il suo Spirito santo (cf. Sap 11,24-26). L’esistenza delle creature non è nient’altro che il loro rispondere: “Eccoci! Presenti!” (Bar 3,35) alla chiamata di Dio.
All’in-principio, in cui si attesta come un ritornello che nei giorni della creazione del mondo “Dio disse” (Gen 1,3-30), corrisponde la visione cristiana espressa nel prologo del vangelo secondo Giovanni: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui”, il Lógos toû Theoû, “e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,3). Le creature del cielo e della terra non sono dovute né al caso né alla necessità, ma sono state chiamate all’esistenza dal Dio che le ha volute nella sua libertà e per amore.
È soprattutto l’Apostolo Paolo che giunge a leggere il télos di tutte le creature nell’orizzonte escatologico, rivelando la vocazione inscritta in esse. Egli intravede che nell’opera di salvezza compiuta dal Cristo risorto tutte le creature saranno reintestate, ricapitolate in Cristo stesso (cf. Ef 1,10), “affinché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28). Attraverso l’incarnazione e l’effusione dello Spirito santo su tutto il cosmo Dio fa “cieli nuovi e terra nuova” (cf. Is 65,17; 2Pt 3,13; Ap 21,1) e trasfigura “la creazione che geme e soffre fino a oggi le doglie del parto, nutrendo la speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione” (cf. Rm 8,21-22) per diventare dimora del Regno. Siamo chiamati a riconoscere questa vocazione cosmica e, assumendo la responsabilità consegnata ad Adamo di custodire questa terra (cf. Gen 2,15), non dobbiamo mai contraddirla. La custodia del creato non fa solo parte della nostra vocazione, ma è con-creazione, perché permette alle creature stesse di rispondere alla chiamata rivolta loro dal Dio creatore.
2. Chiamata umana
All’apice di tutta l’opera della creazione, chiamata cosmica, sta l’umano, quale ’Adam tratto dalla ’adamah e posto nel giardino, il gan ‘eden (cf. Gen 2,8), sta l’umano quale creazione voluta, plasmata e fatta da Dio “a sua immagine e somiglianza” (cf. Gen 1,26-27). L’esistenza umana è dunque la chiamata primaria che si situa nell’economia creazionale: è chiamata alla vita, a una vita conforme all’immagine di Dio.
Per questo la prima delle dieci parole date da Dio a Israele è il divieto di farsi immagini di Dio stesso (cf. Es 20,4; Dt 5,8), perché l’immagine di Dio posta una volta per sempre nel mondo è l’umano, l’’Adam (cf. Dt 4,16-18). Questa vocazione è impressa nell’’Adam proprio attraverso l’immagine di Dio che non può mai andare distrutta o persa, in qualunque condizione l’umano venga a trovarsi. Come già affermavano i padri della chiesa, infatti, nel peccato gli esseri umani possono contraddire la somiglianza con Dio, ma non possono mai perdere la sua immagine. È questa immagine di Dio, eloquente in ogni uomo in ogni donna, che è vocazione, che si fa voce nel cuore nella coscienza di ciascuno, spingendolo a pronunciare un “amen” alla vita: è un desiderio di pienezza e di felicità, una chiamata a “poter essere”.
La vocazione è ciò che fa l’uomo e lo umanizza, perciò è vocazione umana singolare e universale al contempo, vocazione dalla quale nessuno è escluso, anche se nella propria libertà chiunque si può rifiutare di ascoltarla e di accoglierla. Ogni umano, in quanto tale, sente in sé, nelle sue profondità più segrete, nel santuario della sua coscienza accessibile a lui solo, una chiamata, un impulso, un desiderio a uscire da se stesso per essere capace di responsabilità, dunque di rispondere alla chiamata rivoltagli dalla vita. Solo così si può cogliere che la propria vita è unica, che non ve ne sarà un’altra a disposizione e che per questo va vissuta in una forma “sensata”, una forma che acconsenta alla salvezza.
Cosa fare della propria vita per non buttarla, per viverla in pienezza, per trovare senso, anzi il senso dei sensi, fino a farne un’opera d’arte? Questa vocazione umana va generata, custodita, temprata e confermata da ogni persona ma anche da quanti sono in relazione con colui o colei che è chiamato a fare della sua vocazione il mestiere di vivere. Se invece il vivere è senza vocazione, diventa intollerabile; e se la vocazione non diventa mestiere di vivere, allora si permane in una situazione frammentaria, “liquida”, sfilacciata, che non consente un cammino di autentica umanizzazione.
C’è dunque una vocazione umana alla vita, a “poter essere”, che deve abitare ogni persona: così nasce la responsabilità verso gli altri e verso il mondo, così si attua la missione che è sempre realizzazione della vocazione, sempre risposta alla chiamata.
3. Chiamata cristiana
Nel delineare la vocazione umana ho cercato di fare emergere come la prima chiamata sia la chiamata alla vita, all’esistere. Se da parte degli umani manca questa consapevolezza e questa coscienza della vocazione primaria, allora la vocazione cristiana non può essere né percepita né compresa, resta come inattiva. Deve infatti essere chiaro che la vocazione cristiana non è un’altra vocazione ma si innesta sul cammino di umanizzazione in cui si è capaci di ascoltare la voce della coscienza.
Avviene per la vocazione cristiana ciò che è dinamicamente descritto nella parabola del buon seme (cf. Mc 4,1-20 e par.). Se il terreno è zappato e lavorato, allora può accogliere la parola di Dio, dunque la sua chiamata; se invece è un terreno arido, calpestato, ingombro di idoli, la vocazione non può essere percepita e perciò viene soffocata. Sono infatti possibili diverse resistenze alla vocazione, come ci testimonia anche il vangelo: resistenze all’attrazione esercitata da Gesù con la sua autorevolezza, resistenze all’azione dello Spirito santo, incapacità di accogliere la buona notizia senza esserne scandalizzati…
Ma esiste una specificità della vocazione cristiana? Sì, è la specificità della chiamata a vivere “in Cristo”: en Christô, secondo quel sintagma così ricorrente nelle epistole paoline, espressione che riassume da sé sola il cammino della vita cristiana. È la chiamata a essere conformi a lui, il vero e definitivo Adamo, il Figlio di Dio nel quale siamo chiamati a diventare a nostra volta figli e figlie di Dio. È significativa la frequente ricorrenza del vocabolario della chiamata applicato prima ai discepoli storici di Gesù, nei vangeli, poi ai credenti in lui, nei testi apostolici: “chiamati a essere santi” (Rm 1,7); “chiamati secondo il disegno di Dio” (Rm 8,28); “chiamati alla comunione con Cristo” (1Cor 1,9); “chiamati alla libertà” (Gal 5,13); “chiamati alla speranza” (Ef 4,4); “chiamati al Regno” (1Ts 2,12); “chiamati alla santificazione” (1Ts 4,7), ecc.
I cristiani sono i chiamati (kletoí) per eccellenza e la loro comunità è ek-klesía, adunanza di chiamati. La vocazione essenziale dei cristiani e quella ricevuta nel battesimo ed è vocazione unica, anche se possiamo definirla in diversi modi: vocazione alla santità, alla vita in Cristo, alla pienezza della carità, alla beatitudine… Ma quali sono le tappe fondamentali di questo cammino, di questo itinerario pensato nella tradizione cristiana a volte come una salita verso il cielo, come una scala che dalla terra giunge a Dio stesso, altre volte, più raramente, come una discesa? Poco importa l’immagine adottata e va anche detto che, all’interno dei vari percorsi, le tappe non sono sempre definite con precisione; ma ciò che è decisivo è il compimento di un passaggio dalla dissomiglianza alla conformità: si tratta di compiere un esodo pasquale.
Il cristiano che accetta di “camminare secondo lo Spirito” (cf. Gal 5,16) acconsente a questa sua pasqua in cui offre la sua vita nella carne (en sarkí) come sacrificio vivente, come culto secondo il Lógos (cf. Rm 12,1), e così si ritrova quale figlio vivente della stessa vita di Dio. Ecco dunque l’evento della vocazione come evento reso possibile dallo Spirito santo; evento in cui la parola di Dio risuona con efficacia e chiama alla conversione, che è orientamento della propria vita verso il Signore vivente. Si tratta, per il chiamato, di essere capace di ascolto, di essere disponibile alla metánoia. “Lo Spirito santo si unisce al nostro spirito” e ci svela la nostra identità profonda, ciò che siamo e ciò che dobbiamo divenire; “figli di Dio” (Rm 8,16)! Attraverso le energie dello Spirito la reversio in se spinge alla conversio ad Deum.
E così le domande umanissime che abitano il nostro cuore – “Chi sono? Da dove vengo? Dove vado” – trovano risposta nel “credere all’amore di Dio” (cf. 1Gv 4,16) che non deve mai essere meritato. Credere all’amore di Dio è la condizione alla quale si deve pervenire per iniziare la seconda tappa del cammino: la sequela del Signore. Sequela perché il Signore Gesù Cristo ci precede e ci propone di seguirlo. “Seguimi!” è la sua parola rivolta a ogni cristiano: la chiamata non è mai generale, impersonale, né tanto meno può essere motivata da un progetto o da una risposta a urgenze, pure buone, emergenti nell’oggi della chiesa o della società. La parola del Signore che chiama è sempre una chiamata a “stare con lui” (cf. Mc 3,14), personalmente, a “seguirlo ovunque egli vada” (cf. Ap 14,4), ad amarlo al di sopra di tutti e di tutto.
La vita di sequela del cristiano diventa così un’assunzione dei sentimenti (cf. Fil 2,5) e dei pensieri di Cristo (cf. 1Cor 2,16); un camminare come lui ha camminato (cf. 1Gv 2,6); uno stare nel mondo, nella compagnia degli uomini, operando il bene (cf. At 10,38); un vivere, morire e risorgere come egli è vissuto, è morto ed è risorto. La vita umana del cristiano coincide dunque con il vivere l’esistenza umana di Gesù. E il cristiano vive questa sequela nella luce della resurrezione del suo Signore vivente per sempre, vincitore sulla morte e sul peccato.
Ma la sequela è anche inabitazione di Cristo. Cristo non lo si segue soltanto per giungere alla conformità con lui, ma lo si sperimenta anche come colui che è precursore (pródromos: Eb 6,20), come colui che abita in noi. Perché la sua parola dimora in noi (cf. Gv 5,38), il suo corpo e il suo sangue, nel metabolismo eucaristico, ci fanno diventare corpo e sangue di Cristo (cf. Gv 6,56), ci rendono tempio di Dio, abitazione dello Spirito santo (cf. 1Cor 3,16). Questa coscienza della presenza di Cristo “in noi” e di ciascuno di noi “in lui” è decisiva nella vita cristiana. Possiamo dire di scorgere segni dell’adempimento della nostra vocazione quando sappiamo riconoscere Cristo in noi, rispondendo alla domanda rivolta da Paolo alla giovanissima comunità cristiana di Corinto: “Esaminate voi stessi, se siete nella fede, mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?” (2Cor 13,5). O ancora, quando nella fede osiamo dire, sempre con l’Apostolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita, che io vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).
Questa è la condizione cristiana, il “mistero”, come lo chiama ancora l’Apostolo: “Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27). Questa incorporazione a Cristo è la grande opera dello Spirito santo, “l’altro Paraclito” (Gv 14,15), che manifesta quale frutto della sequela l’inabitazione di Dio, ossia il dimorare del cristiano in Dio, cioè nell’agápe.
Conclusione
Così, per grazia e per la potenza dello Spirito santo, il cristiano conosce – secondo la spiritualità dell’oriente cristiano – la théosis, la divinizzazione. Si realizza allora il famoso adagio di Atanasio di Alessandria: “Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio” (L’incarnazione 54,3).
Da portatore della croce, stauroforo (sequela),
il cristiano diventa portatore dello Spirito, pneumatoforo (inabitazione),
fino a diventare “partecipe della natura stessa di Dio” (2Pt 1,4; divinizzazione).
L’occidente, dal canto suo, mette piuttosto l’accento sull’incarnazione, sull’umanizzazione di Cristo, dunque sulla conformità del discepolo al Cristo stesso, conformità che può giungere a fare del discepolo un “somigliantissimo” al suo Signore.
In ogni caso, la chiamata alla vita in Cristo, sia in oriente sia in occidente, è sempre chiamata alla santità ottenuta in dono grazie alle energie dello Spirito santo: il chiamato cede giorno dopo giorno alla grazia che lo attira, fino a fare di lui “una creatura nuova” (2Cor 5,17; Gal 6,15). Ed è lo Spirito, “compagno inseparabile di Cristo” (cf. Basilio di Cesarea, Sullo Spirito santo 16,39), che permette a ogni cristiano di sentire in sé una voce che come acqua zampillante ogni giorno gli ripete nell’intimo, quale sigillo della chiamata a vivere in Cristo: “Vieni al Padre!” (Ignazio di Antiochia, Ai romani 7,2).